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Approfondimenti - Lo Zafferano Abruzzese

 

 

Lo Zafferano dell’Aquila (registrato all’Albo Nazionale dei Sementi come Crocus Sativus L. cv Piano di Navelli – L’Aquila) è un cultivar tipico dell’Aquilano distinto agronomicamente e merceologicamente da quello prodotto in altre zone d’Italia e in altri paesi del mondo.

 

Lo Zafferano dell’Aquila è ricercato da secoli dai più esigenti buongustai del mondo in quanto è il risultato della combinazione di una serie di elementi che nel loro insieme ne determinano la qualità eccellente e non replicabile. Questi elementi sono: un tipo di coltivazione unica che si tramanda nei secoli di generazione in generazione soltanto in questa zona, un territorio e un microclima che si sono rivelati ideali per tale tipo di coltura ed il duro lavoro di donne e uomini che ogni anno svolgono con amore e disciplina ogni fase della produzione nel rispetto della tradizione.

Lo Zafferano dell’Aquila si caratterizza per la lunghezza degli stimmi, per l’alto contenuto in safranale che determina il potere aromatico, nonché per l’elevato potere colorante e per le maggiori dimensioni dei bulbo-tuberi.

 

Ecco come lo scrittore Maurizio Maggiani inizia il suo suo libro “La Regina Disadorna”, vincitore del Premio Stresa per la narrativa nel 1999:
“Oltre la Persia dei Re, sui primi contrafforti calcarei delle montagne dell'Oxiana, cresce un piccolo bulbo, il croco sativo.
Per tutta la ventosa primavera e per la secca estate non fa che vivacchiare, vegetando lentamente cinque lunghe e sottilissime foglie colorate di un verde azzurrino striato d'argento. Poi, con le prime piogge d'autunno, apre il suo fiore, a volte turchino, a volte violetto. E' un fiore di cinque petali che si uniscono in un delicato calice; nel calice quattro lunghi stami, sottili come pagliuzze, maturano dal giallo acceso all'arancio.
A questo punto, prima che i venti freddi che rotolano selvaggi giù dalle vette dell'Hindukush inizino a spianare le erbe dei prati, le ragazze dei villaggi di pastori sparsi sull'altopiano intraprendono la raccolta dello zafferano, Zahfran, la chioma degli angeli. E' un lavoro di grande pazienza e virtù, che le giovani donne compiono con grazia e maestria staccando con le unghie gli stami uno a uno. Come impone la legge, nessuna di loro è più vecchia di tredici anni, nessuna ha mai toccato un uomo. Alla fine del raccolto, dalle terre di un'intera tribù si ricavano non più di due once di prodotto essiccato, ben custodito in sacchetti di tela di lino appesi ai soffitti delle capanne.
Prima della neve i mercanti fanno il giro delle colline portando sale, pesce secco, fucili e cartucce, da scambiare con i bianchi involti di lino. Negli anni di buon raccolto giungono all'ammasso di Esfahan persino due quintali di spezia, caracollata a dorso di cammello dentro piccole casse di piombo. Lì viene incantata all'asta e smistata negli empori di Samarkand, Cairo e Istanbul, da dove verrà smerciata in tutto il mondo.

 

A suo tempo i mercanti pensarono di portare con loro dall'Oxiana anche le sementi dei bulbi, e cercarono di diffondere ovunque la coltivazione di una droga così rara. Purtroppo il croco sativo è un piccolo fiore ostinato e difficile a domarsi; ad oggi nel mondo intero non vi sono che undici ben delimitate zone in cui la pianticella ha attecchito e prosperato, e undici distinte qualità di zafferano. O forse dodici. Intorno al Settecento un tale Ibrahim Al Barrani, ricco mediatore e botanico dilettante levantino, scoprì che triturando finemente l'ovario e la corolla del fiore scartati durante la raccolta, si otteneva qualcosa che a prima vista poteva essere scambiato con la preziosa materia degli stami.

Ferve da allora una piccola industria di contraffazione che porta nelle pentole di cuochi senza scrupoli o poco esperti uno sbiadito succedaneo del vero zafferano.
A parte questo, naturalmente, la qualità del prodotto varia da zona a zona. Lo zafferano di Mancia, ad esempio, non è buono come il persiano, quello di Anatolia ancor meno; più profumato quello di Poitou e assai pungente lo scurissimo di Mendoza. Introvabile e tenuto come sacro il pugnetto o poco più raccolto dalle bambine di Zafferana, e migliore di tutti l'Aquilano, il famoso zafferano d'Abruzzo.
L'uso di questa droga è talmente diffuso in ogni parte del mondo che alla fine del secolo scorso si costituì un comitato internazionale per la tutela e la calmierazione, il cui compito era di tenere sott'occhio il mercato e impedire speculazioni che avrebbero potuto creare tali disordini da giustificare l'intervento di un organismo internazionale. Per quel che se ne sa, quel comitato è tuttora in funzione e il prezzo dello zafferano, come quello delle sue imitazioni, si è dimostrato nel tempo assai più stabile di quello del metallo aureo.
Alla fine degli anni venti di questo secolo, nel porto di Genova, allo sbarco coloniali del porto franco, venivano stoccate dieci diverse qualità di zafferano, compreso, non esattamente alla luce del sole, anche il suo truffaldino surrogato. Oltre a questo, una ditta di spedizionieri con lo scagno al varco di Sottoripa aveva il monopolio dell'esportazione della qualità aquilana. Nelle drogherie della città, almeno in quelle del centro, erano in vendita tutte quante”
. …segue

La pianta di zafferano essendo uno sterile triploide non esiste allo stato spontaneo ed è incapace di produrre frutti e semi. Lo zafferano si riproduce solo per via vegetativa e questa funzione è favorita dalla coltivazione che nel caso particolare dello Zafferano dell’Aquila è diventata un’arte. Gli agricoltori intervenendo periodicamente sul ciclo di vita dello zafferano evitano il naturale e graduale rimpicciolimento dei bulbi lasciati nel terreno, con le concimazioni li riportano alle normali dimensioni e con una selezione annuale li rendono immuni da alcune malattie, favorendo al tempo stesso la conservazione dei preziosi caratteri morfologici e fitochimici. Da ciò deriva che lo Zafferano dell’Aquila è il più selezionato del mondo e perciò il più pregiato. La tipologia di coltivazione determina le diversità tra lo zafferano di differente provenienza per quanto riguarda i caratteri morfometrici che possono essere diversi per effetto della selezione legata alla coltivazione, per i fattori di adattabilità ambientale (clima e suolo) e per il contenuto percentuale di alcuni principi fitochimici degli stimmi.

Si dice, ma non ci sono notizie certe a riguardo, che l’arte della coltivazione dello Zafferano dell’Aquila fu perfezionata nel medioevo da un frate dell'ordine dei Domenicani. Il frate, di ritorno nel suo paese natale nel contado Aquilano, che secondo alcuni storici era Stiffe, dalla Spagna dove era andato in missione per sopperire con la predicazione alla miseria spirituale del popolo cristiano e per combattere l’eresia, modificò le pratiche colturali spagnole adattandole al clima ed al suolo della zona. Per far ciò sviluppò per la prima volta la coltura a ciclo annuale. Tale pratica colturale aquilana differisce da quella di altri Paesi come la Spagna, la Grecia, l’India e come in Sardegna, dove in genere si usa lasciare i bulbo-tuberi nel terreno dai 3 agli 8 anni (coltura poliennale).

Per raccontare la storia dello Zafferano dell’Aquila è necessario considerare parte della storia della Città dell’Aquila in quanto il destino dell’uno influenzò la sorte dell’altra e viceversa.
Il più antico documento che testimonia la coltura e il commercio dello Zafferano dell’Aquila è un diploma di re Roberto d’Angiò del 1317 con il quale risponde positivamente ad una supplica dei mercanti aquilani di zafferano di proibire ai doganieri del luogo una seconda gabella (imposta) arbitraria gravante sulle merci preziose e quindi sullo zafferano (Antico Archivio Aquilano, V42, c.16v-17r).

Tale commercio non poteva essere più antico in quanto è con la fondazione della città dell’Aquila nel 1254 che si creano nuovi flussi commerciali e produzioni agricole e industriali prima impensabili. La presenza della coltura dello zafferano non sarebbe stata compatibile con una economia di pura sussistenza. L’Aquila, grazie ad un privilegio del 1376 ottenuto dalla regina Giovanna I con il quale veniva confermato quanto concesso da re Roberto d’Angiò in precedenza, diventa una specie di zona franca esente dalle gabelle e dalla quale era estremamente conveniente importare e esportare merci. Inoltre, la frenetica attività mercantile che correva lungo la via degli Abruzzi ovvero lungo l’asse Napoli-Firenze aveva determinato degli accumuli di capitali che dovevano essere reinvestiti. Gli investimenti dei mercanti imprenditori erano articolati e differenziati fra greggi, pascoli, zafferano, appalti di gabelle, lana e seta. In questo contesto, per favorire l’afflusso di denaro fresco da reinvestire nella zona gli aquilani idearono e utilizzarono il meccanismo della società in accomandita che veniva calato, forse inconsapevolmente, nell’antico contratto di soccida.


All’epoca si usava considerare l’Aquila come il principale centro europeo di produzione della preziosa spezia e giungevano in città i mercanti veneziani, fiorentini e milanesi. Inoltre, fra i più golosi consumatori di questa spezia è necessario menzionare i tedeschi di Norimberga che ad un certo punto preferirono non avere più l'intermediazione dei mercanti veneziani e intorno alla metà del XV secolo si stabilirono con una propria rappresentanza nella Città dell'Aquila.

Secondo uno studio effettuato dallo storico giapponese Hidetoshi Hoshino sui rapporti economici tra l’Abruzzo aquilano e Firenze nel Basso Medioevo, risulta che: “Un’altra merce importante quanto la lana e la seta era lo zafferano, preziosa spezia richiesta particolarmente nella zona germanica, il cui commercio era assai fiorente in alcune fiere di carattere internazionale, quali quelle di Ginevra nel sec. XV e di Lione del sec. XVI. L’attività esercitata dai mercanti norimberghesi in collaborazione con quelli aquilani per l’esportazione dello zafferano risale, secondo i documenti, agli anni ’40 del Quattrocento. Tuttavia, fino agli ultimi anni dello stesso secolo, quando si insediò all’Aquila una grossa colonia di mercanti germanici, al commercio partecipavano molti mercanti fiorentini che inviavano il prodotto a Ginevra, a Lione e a Venezia per via terrestre, passando per Firenze e Bologna. La merce poteva essere spedita naturalmente anche per via marittima, dalle città portuali abruzzesi a Venezia, dove risiedevano i grandi mercanti delle Germania meridionale.” …segue

Il XV secolo fu per L’Aquila il periodo di maggiore floridezza economica, culturale e spirituale: nel 1454, per volere di San Giovanni da Capestrano e di San Giacomo della Marca si pose la prima pietra della Basilica di San Bernardino da Siena, dove tutt’oggi riposa il corpo del santo, la cui costruzione fu finanziata anche grazie ad una gabella sullo zafferano; nel 1458 re Ferrante I d’Aragona firma il decreto con il quale concedeva alla Città il diritto di aprire una propria Università; nel 1481 Adamo da Rotweil, allievo di Johannes Gutenberg, inventore della stampa a caratteri mobili, apre nella città dell’Aquila una tipografia. Insomma, tutto sembra contribuire al rinascimento della Città: la cultura, l’arte, lo spirito, il commercio e il benessere generale.

 

Lo storico Gian Michele Bruto nato a Venezia nel 1515, nel secondo volume delle sue Historiae Fiorentine scrive: “Aquila è una città dell’Abruzzo nota agli italiani e agli stranieri perché i suoi abitatori coltivano un territorio fertile a zafferano, del quale gran copia ogni anno manda nei paesi lontani. La città d’Aquila era fertilissima, e fra le più ricche di quelle regioni, a causa della gran gente, che da ogni parte vi conveniva per comprare lo zafferano, del quale come dicemmo, quel territorio è fecondissimo.”

Il maggior volume di produzione dello zafferano si ha nel XVI secolo, ed esattamente a cavallo degli anni 1583 e 1584. Ma è proprio in questo secolo che a causa di una serie di guerre, di alcuni terremoti, della peste e delle sempre maggiori gabelle imposte dai monarchi spagnoli che si attivò un lento ma inesorabile declino della produzione dello Zafferano dell'Aquila.

In particolare fu Carlo V a togliere alla Città dell’Aquila i privilegi acquisiti nel passato e gli aquilani, nell’estremo tentativo di difenderli subirono nel 1529 un saccheggio da parte del principe Filiberto d’Orange, viceré del Regno di Napoli, che in rappresentanza di Carlo V, diede l’ordine di costruire ad reprimendam aquilanorum audaciam il castello-fortezza dell’Aquila e impose alla Città il cosiddetto taglione di 100.000 scudi necessario per la costruzione dello stesso. Gli aquilani non sapendo come pagare questo taglione accetarono un'offerta dei commercianti tedeschi che si resero disponibili ad anticipare parte di tale somma in cambio dell'esclusiva e del controllo del prezzo dello Zafferano dell'Aquila. Con il passare del tempo e in mancanza di un libero mercato, la coltivazione si ridusse di anno in anno fino ad arrivare nel 1646 ad 1 kg contro i 4000 kg di due secoli prima.

Durante la dominazione dei Borboni nel Regno di Napoli ci fu una graduale ripresa della coltivazione dello zafferano che si è drasticamente ridotta nel XIX secolo.

 

Oggi lo Zafferano dell'Aquila è prodotto da pochi coltivatori localizzati prevalentemente nella zona della Piana di Navelli e commercializzato da poche aziende agricole fra cui l’Antica Azienda Agricola Peltuinum di Prata D’Ansidonia che, dando minor peso agli aspetti quantitativi, si focalizza sul raggiungimento degli standard di qualità che da secoli rendono lo Zafferano dell’Aquila un prodotto unico e ricercato dai più esigenti buongustai del mondo.

 

 

 

 

Sia la superficie coltivata che la produzione di Zafferano dell’Aquila sono ben modeste rispetto a quelle di altre zone del mondo ma tale zafferano merita la massima considerazione per le caratteristiche bio-agronomiche del germoplasma e per quelle culinarie/gastronomiche derivanti dalle pregiatissime qualità organolettiche.

Le analisi sotto riportate sono state eseguite nel Laboratorio Analisi Chimiche dei Prodotti Alimentari, Facoltà di Scienze Agrarie Università di Milano nell’ambito del Programma Finalizzato MAF: Piante Officinali Italiane.

L’analisi chimica dello Zafferano dell’Aquila ha evidenziato la seguente composizione:

    Acqua: 9-14%

    Sostanze azotate: 11-13%

    Olio volatile: 0,3-2%

    Sostanze grasse: 3-8%

    Zuccheri: 12-15%

    Sostanze non azotate: 41-44%

    Cellulosa: 4-7%

    Ceneri: 4-8%

I principi attivi sono rappresentati dalla crocina (è l’estere di gentobiosico della crocetina; per idrolisi si scinde in D-glucosio e crocetina), dalla picrococina e dal safranale.

Potere colorante

Crocina e crocetina sono responsabili dell’attività colorante.

Il potere colorante è stato determinato mediante assorbimento spettrofotometrico a 440nm di una soluzione all’1% di stimmi finemente macinati in acqua/alcol etilico 9 a 1. Questi sono i risultati dell’analisi:


Potere aromatico

Il safranale è responsabile del potere aromatico dello zafferano.
La picrocrocina è un glucoside amaro che per idrolisi si scinde in D-glucosio e in safranale. Il safranale è l’aldeide terpenica che si forma durante l’essiccamento e la conservazione del prodotto che contribuisce, tra i costituenti volatili, alle qualità dell’aroma. Per la valutazione del potere aromatico è stato determinato il contenuto di safranale attraverso una gascromatografica previa distillazione in corrente di vapore. Il valore medio è intorno al 4%.

Inoltre, lo Zafferano dell’Aquila è una spezia ricchissima di antiossidanti e la cottura non ne altera le caratteristiche. Gli antiossidanti derivano dalla crocetina, dalla crocina e dalla picrocrocina cioè da quei principi attivi che ne determinano il potere colorante e che appartengono alla famiglia dei carotenoidi. Nello zafferano il contenuto di carotenoidi è dell’8% contro lo 0.008% della carota che è riconosciuto come uno dei vegetali naturali più ricco di tale sostanza. Per avere gli stessi livelli di carotenoidi nel sangue e quindi per sprigionare i relativi effetti antiossidanti derivanti da 0,5 grammi di zafferano sarebbe necessario mangiare 3 etti di pomodori, 2 etti di carote, 3 etti di peperoni e 2 etti di spinaci! In generale, l’attività antiossidante dei caroteni, combattendo i radicali liberi, protegge contro l’invecchiamento e probabilmente ha anche effetti antitumorali.




Altri elementi preziosi presenti nello zafferano sono la Vitamina B1 (antiossidante e necessaria per la crescita), la Vitamina B2 (utile alle cellule nella fase di scambio di ossigeno e per attivare il metabolismo).

L’apporto calorico dello zafferano è praticamente nullo in quanto 1 grammo di zafferano (utile per preparare circa 12 piatti di riso alla milanese) corrisponde a 2,7 calorie e quindi a 0,225 calorie per piatto.


Usi

Le virtù dello zafferano sono note fin dall’antichità ed è possibile trovarlo fra gli ingredienti più usati nella preparazione dei medicamenti contro la peste. I faraoni egiziani lo apprezzavano per le sue virtù terapeutiche. Ippocrate lo prescriveva in fomenti nei luoghi dolenti della gota o reumatismi.

Plinio il Vecchio lo apprezzava per le sue proprietà terapeutiche contro le esulcerazioni dello stomaco, petto, reni, fegato e polmoni; era inoltre ritenuto utile per la tosse e il mal di petto, e per i suoi effetti lussuriosi: studi recenti hanno dimostrato che questa pianta ha caratteristiche simili a un ormone stimolante l’ovaio, e che si riflette in materia particolarmente utile sulla sfera sessuale. Si può comunque affermare che l’ipotesi afrodisiaca serva, in certi casi e circostanze, a vivacizzare la mente stimolando gli ardori. Quindi, lo zafferano può essere considerato un prodotto lussurioso utile a stimolare la psiche.

La Scuola Salernitana attribuiva allo zafferano proprietà rallegranti che confortavano anche il fegato e le membra.

Nel medioevo era utilizzato contro il mal caduco e veniva definito come un “elettuario angelico per la peste”. Inoltre, veniva considerato un dispensatore di allegria tanto da dire di una persona ilare: “ha dormito su di un sacco di zafferano”.

 

Dal XIII secolo, con il rifiorire della vita cittadina, con l’intensificarsi dei traffici in seguito alle crociate, con il formarsi del primo embrione della borghesia, oltre ai piaceri dello spirito trovarono legittimazione anche i piaceri del corpo e la gastronomia cominciò a corteggiare il gusto e a sensibilizzare il palato.

Secondo un medico del XVI secolo, tal Ortensio Lando, anche in periodo di quaresima, nella città di Taranto si rischiava di diventare più larghi che lunghi tanta era la bontà dei pesci cucinati con vino ed erbe aromatiche; i ricettari traboccavano senza pudore di torte di pesce allo zafferano, di brodetti di seppie e di polpi con noci e mandorle.

Inoltre, nel Monastero della Beata Colomba a Perugia è stato ritrovato un vecchio ricettario di cucina del 1500, “Gola e preghiera nella clausura dell'ultimo '500” dove sono presenti numerose ricette che prevedono l'uso dello zafferano.

Per quanto riguarda l’uso dello zafferano in cucina, è necessario sfatare un luogo comune secondo il quale nel medioevo le pietanze venivano speziate per coprire il gusto della carne troppo frollata e quindi rancida. Ciò non è vero in quanto chi poteva acquistare le spezie, che erano un vero e proprio status-symbol, poteva certamente far macellare più di una vacca al giorno e quindi aveva meno problemi di freschezza di quanti ne possiamo avere noi oggi. Lo speziare i piatti era l'ostentazione della ricchezza e quindi del potere economico che aveva il padrone di casa (feudatario, signorotto, vescovo, imperatore).

A supporto di questa tesi basta menzionare il trattato di morale ed economia domestica che un tal Ménagier (così si firma), ricco e distinto funzionario di sessantasette anni, forse vedovo, che aveva un bellissimo palazzo nel centro di Parigi opulento di arazzi e preziose suppellettili a cui accudiva uno stuolo di domestici, scrisse sul finire del XIV secolo per la sua sposa quindicenne: “ …i piatti, appena si può devono essere colorati: il pollo disossato, riempito di una farcia di carne, uova e formaggio, va prima bollito e poi rosolato allo spiedo, dorato con pennellature di tuorlo e zafferano”…

Per quanto riguarda l’uso cosmetologico, già nel 2000 A.C. a Creta lo zafferano veniva usato per migliorare l’estetica femminile e in particolare il seno delle donne, che veniva lasciato scoperto e sostenuto da pettiere in oro e argento, con i capezzoli colorati in rosso-aranciato, serviva appunto per fare il rosso aranciato delle aureole mammarie e delle labbra.


Anche nella civiltà babilonese, lo sviluppo della cosmetica e il gemellaggio della stessa con l’astrologia, portano in evidenza l’uso dello zafferano insieme all’incenso e alla mirra, bruciati in pregevoli e giganteschi brucia profumi che seguivano in processione l’altare d’oro.

Presso gli Assiri, lo zafferano aveva un grande importanza e la leggendaria e bellissima Semiramide lo faceva coltivare nei giardini pensili fatti costruire per lei da Nabucodonosor.

Cleopatra, in Egitto, ne valorizzò molto l’uso come profumo.

Nei fiorenti empori di cosmetici di Gerusalemme lo zafferano era molto ricercato per fare dei profumi sacri destinati prevalentemente all’uso liturgico e la sua polvere, unità a l’Hennè veniva utilizzata per tingere il viso. Il profumo di zafferano veniva definito sacrale per la sua funzione di veicolare la preghiera “che sale in cielo scorrendo sui fiumi odorosi dell’essenza”.

Con la civiltà greca tutti i trattamenti estetici ebbero un prodigioso sviluppo. Il lato estetico era talmente esaltato che ad Atene appositi magistrati detti “Ginecom” multavano le donne che trascuravano l’abbigliamento e la cura della propria persona. Tra le materie prime importate dalla vicine civiltà orientali c’era lo zafferano, citato da Teofasto in una monografia circa la preparazione degli olii profumati, olii che erano considerati molto importanti per il risultato aromaterapeutico che veniva riconosciuto alle essenze. I due profumi più popolari ad Atene erano entrambi a base di zafferano: il Susinum (di cui Plinio ci dà la composizione: cannella, rosa, zafferano e mirra) ed il Crocinum, fatto quasi tutto di zafferano.

Lo stesso Crocinum viene importato a Roma (nonostante gli editti che proibiscono la vendita di profumi esotici) e poi prodotto durante l’impero in grande quantità. Con l’età imperiale romana lo zafferano assume il ruolo di “status symbol” ed è utilizzato a causa del costo esclusivamente da persone benestanti. Le essenze di zafferano si spargono nelle sale da pranzo, dove i commensali spesso riposano su cuscini di petali di zafferano, bevendo vino mescolato con stimmi di zafferano, mentre polvere dello stesso veniva fatta piovere sui convitati. Nelle terme, i più raffinati si bagnavano in acque profumate con essenze di zafferano. L’epoca di Roma imperiale rappresenta il momento magico di questa misteriosa spezia tanto preziosa da essere definita “l’oro vegetale”.

 

Il costo è sempre dipeso dal durissimo lavoro necessario per la sua produzione e molto probabilmente ha causato la fine del suo uso nel campo della cosmetica e dell’estetica.

Ricette culinarie

A titolo di esempio e per stimolare la vostra voglia di cose buone e di benessere vi proponiamo alcune ricette tipiche della zona dell’Aquila e altre che vedono come protagonista il nostro ineguagliabile Zafferano dell’Aquila.

Vi ricordiamo che un grammo di Zafferano dell’Aquila in stimmi è sufficiente per la preparazione di 10-12 porzioni di risotto alla milanese.

In genere si usa mettere un pizzico di stimmi di zafferano in un bicchiere con un po’ di acqua calda e lo si lascia sciogliere per alcuni minuti prima di versare il contenuto nel brodo, insieme con tutti gli stimmi, nel caso del risotto alla milanese.

Saremmo irriconoscenti se non presentassimo la ricetta del piatto che più di tutti esalta il sapore del nostro zafferano: il Risotto alla milanese.

Ricetta in prosa del risotto alla milanese tratto da «LA CUSINNA DE MILAN» di Giuseppe Fontana del 1938.

«Gina, Gina, stavolta chi el risott
voeui cural mi. Prepara bella netta
la padella, che sem in sett o vott.
El broeud te ghe l’ee bon ? Sì ? De manzetta ?
Famel on poo saggià. Bon, bon, va là,
sent che odorin ? El fa resuscità.

El ris l’è del vialon rivaa su jer ?
L’è mondaa ? Torna a dagh ona passada.
Sù, sù, mett in padela el to butter
e on tochell de scigola ben tridada.
Mett a foeugh, fà tostà movend sul fond
cont el cazzuu a fal de color biond.

Dent el ris. Ruga. Bagnel cont el vin
bianch, magher (mezz biccer). Dent el zaffran.
Ruga. Fagh sugà el vin. Sent che odorin !
Sugaa ? Giò el broeud da man a man.
Boffa sott che’l dev buj a la più bella
de sentil a sparà in de la padella.

Bagnel del tutt e rangiel giust de saa.
Lassel coeus. Brava. Gratta giò el granon.
Oi, oi sott, sotta foeugh chel s’è incantaa.
Gina che risottin, che odor de bon !
Ten rugaa veh ! Adasi e dappertutt.
Varda, l’è quasi all’onda, on cinq minutt.

Giò che l’è pront. L’è moll ? Fa nient, el ven.
Dent el grana abbondant e on bell tocchell
de butter peu mantecchel ben, ben, ben,
menand sù svelt che’l ven e bon e bell.
Quest chi sì l’è on risott che var la spesa,
on risott propi faa a la milanesa !

Cott al punt, mantecaa a la perfezion,
bell, mostos, el te fà resuscità
anca on mort ch’è crepaa d’indigestion.
Tirel giò e mett on tavola che in là
con tant d’oeucc e sospiren guardand chi.
Servel, che vegni subit anca mi».

 

Il Risotto alla milanese

Per 4 persone.
Preparare un brodo sgrassato con carne di manzo, vitello e gallina e un soffritto con 40 grammi di burro, 50 grammi di cipolla e 80 grammi di midollo di bue. Aggiungere 300 grammi di riso e far insaporire per 3 minuti. Aggiungere il brodo. Ricordarsi di versare a un quarto di cottura un bicchiere di vino bianco. Poco prima che il riso sia cotto aggiungere gli stimmi di zafferano sciolto in un bicchiere di acqua (10 stimmi), e subito dopo 60 grammi di parmigiano reggiano.

Il Risotto allo Zafferano dell’Aquila

Per 4 persone.
Cuocere a pentola scoperta.
Far imbiondire dolcemente mezza cipolla tritata finemente in 40 gr di burro e in un cucchiaio di olio di oliva extravergine. Unire 300 gr di riso e mantecarlo. Togliere dal fuoco. Rimettere sul fuoco e unire 4cucchiai di vino bianco. Mantecare. Unire un po’ alla volta brodo vegetale bollente (dado sciolto in acqua bollente). Ad un terzo della cottura unire lo zafferano sciolto in un bicchiere di acqua (8 stimmi). A piacere è possibile aggiungere salsiccia e funghi già preparati. Verso la fine della cottura aggiungere il parmigiano e poco burro seguitando sempre a mescolare. Il riso deve rimanere umido e se occorre aggiungere altro brodo o acqua bollente. Lasciar riposare qualche minuto e servire con parmigiano.

Cavolo allo zafferano

Per 4 persone basta un piccolo cavolo, ½ litro di brodo, qualche stimma di zafferano, 50 gr di prosciutto, ½ cipolla, sale e pepe nero macinato. Bisogna prima di tutto tagliare il cavolo a striscioline e poi va lasciato per 30 minuti immerso in acqua salata e fredda. Affettare finemente il prosciutto e la cipolla. Scolare il cavolo e lasciarlo sbollire per 15 minuti fino a metà cottura. Mescolare lo zafferano in un po’ di acqua e aggiungerlo al cavolo insieme al prosciutto, alla cipolla, al sale e al pepe. Mescolare con cura e lasciare bollire finche il cavolo non diventa tenero. Se necessario, aggiungere un po’ di brodo. Servire in zuppiera affiancandolo con crostoni di pane abbrustolito fritto nell’olio e per chi ama il piccante aggiungere un po’ di peperoncino.
Al posto del cavolo si possono utilizzare anche altre verdure.

I VERMICELLI con vongole allo zafferano

Ingredienti per 4 persone

320 gr di vermicelli, 1 chilo di vongole (già spurgate), aglio, peperoncino, Zafferano dell’Aquila, prezzemolo, pepe nero, olio extra vergine di oliva, sale grosso per la pasta.
Per prima cosa, sgusciate circa settecento grammi di vongole. Mettete cioè una padella piuttosto larga sul fuoco e sistemateci le vongole. Fate andare a calore vivace, coprendo col coperchio e squassando ogni tanto la padella (o rigirando con un cucchiaio di legno) finchè non sono tutte aperte. Sgusciarle e metterle a riposare - sempre al coperto - nel loro liquido di cottura. Mettere da parte mezzo bicchiere di brodino di vongole caldo e versateci 0,3 gr. di fili di zafferano.
Versate nella padella un mezzo bicchiere di olio e metteteci a soffriggere uno spicchio d'aglio, privato del germoglio. Non appena inizia a colorirsi, aggiungete un pezzetto di peperoncino e fate soffriggere per un minuto e poi toglieteli via prima che brucino. Versate ora nella padella il liquido delle vongole sgusciate (ben filtrato!) . Fate restringere il brodino e aggiungete le vongole che avete lasciato crude. Non appena si sono aperte, rimettete nella padella anche quelle sgusciate in predenza e buttateci i vermicelli che intanto avete cotto bene al dente. Fate saltare il tutto per un minuto o due nella padella versando a questo punto il mezzo bicchiere di brodo con lo zafferano (il tempo che la pasta assorba tutto il sughino delle vongole) e aggiungete - se vi va - un po' di prezzemolo tritato e un po' di pepe nero macinato al momento. Per finire, aggiungete nel piatto un filo leggerissimo di olio crudo.

 

 

 

 


Fra le regioni d'Italia l'Abruzzo è probabilmente quella che mantiene viva un'arte culinaria che più assomiglia al suo passato indipendente dalle dominazioni e che, anche nei suoi prodotti più caratteristici meglio custodisce le tradizioni, i riti, i misteri e le magie della sua cultura. La ragione è, se così si può dire, orografica: deriva dall'asperità delle catene montuose che da sempre separano la terra del grande poeta latino Ovidio, ancora tanto presente nella cultura abruzzese, dal mondo circostante. L'intensità con cui è stata sentita e vissuta (e in parte lo è ancora) la tradizione di magia e di superstizione, di maledizioni e di sensuale panteismo sono espressi benissimo nelle pagine di Gabriele D'Annunzio, per certi versi cittadino del mondo e per altri interprete della cultura più profonda e oscura della sua terra d'Abruzzo. Citiamo in particolare il più popolare dei drammi dannunziani, La figlia di Jorio (1904), dove la protagonista, Mila di Codro, per voce pubblica maliarda e malafemmina, sfugge ai mietitori imbestialiti rifugiandosi nella casa di Lazaro di Rojo, che per lei è stato ferito da un rivale. Aligi, figlio di Lazaro, la protegge perché ha scorto alle sue spalle l'angelo custode piangente e va con lei sulla montagna, rispettandola. Ma sopraggiunge Lazaro che cerca Mila e Aligi l'uccide. Al parricida spetterebbe una pena atroce, ma Mila si assume la responsabilità del delitto e affronta impavida la morte. Un dramma che non ha tempo e che pertanto rappresenta bene l'antica anima che vibra in questa terra. Certo oggi con la costruzione delle autostrade e il miglioramento di tutte le comunicazioni l'isolamento millenario della regione è finito: ma le consuetudini, le memorie e la cultura degli abruzzesi sono ancora vive e riconoscibili, sopravvissute all'industrializzazione e al turismo di massa. Se ne vede traccia nei riti religiosi o laici che affollano il calendario delle città e dei borghi, nella sopravvivenza tenace dei mille dialetti in uso a dispetto dell'omogeneizzazione televisiva, nella conservazione delle abitudini alimentari riscontrabile non solo a tavola ma nelle fattorie, nei caseifici e nei laboratori artigianali, dove si mettono a punto le materie prime destinate a diventare protagoniste della mensa. Seppure con inevitabili aggiornamenti, molte delle ricette in uso derivano dalle esperienze delle generazioni passate, mentre le modalità di preparazione e di conservazione dei cibi restano, a livello familiare, sostanzialmente fedeli alla tradizione. La cucina abruzzese dalla ritardata rottura dell'isolamento ha tratto certamente un beneficio degno di apprezzamento e ci riferiamo alla genuinità degli ingredienti e di tutti i prodotti tipici, garantita, meglio che altrove, dall'Adriatico da un lato e dal Gran Sasso dall'altro.
All'origine erano ingredienti poveri. Per molti secoli l'economia della regione ha consentito a fatica la sopravvivenza: né l'agricoltura, poco remunerativa sull'Appennino più alto, né la pastorizia (attività cantata dal Vate, «Pastori è tempo di migrare») davano benessere. D'altra parte la composizione sociale della popolazione abruzzese è stata per molti secoli di estrazione modestissima sia dal punto di vista economico che culturale. Non grandi famiglie stanziali, non castelli con sontuosi banchetti, non tradizioni auliche, tanto che nei più famosi trattati che secolo dopo secolo tracciano la storia della cucina italiana, la gastronomia abruzzese, come quella molisana, non compaiono; esempio unico di assenza derivante certo dal fatto che la cucina di queste regioni non aveva avuto modo di valicarne i confini. L'abitudine della gente d'Abruzzo di festeggiare le occasioni solenni con quegli interminabili pranzi che si chiamano panarde nacque dalla miseria: i contadini abruzzesi si risarcivano con essi di digiuni a lungo protratti. Un pranzo di nozze rispettabile non poteva avere meno di venti portate: il pranzo tradizionale offerto all'ospite di riguardo, poteva arrivare a trenta e chi non resisteva a tanta opulenza dichiarando forfait davanti all'ennesimo piatto, rischiava di offendere irrimediabilmente chi aveva organizzato la pantagruelica imbandigione. Le cose sono assai cambiate negli ultimi tempi: ammessi alla tavola del benessere, ma gli abruzzesi hanno aggiunto alle loro virtù anche quella, invocata dall'altro grande scrittore di questa terra, Ignazio Silone, di nutrirsi con parsimonia. Le panarde si organizzano ormai solo a scopi di folclore, come altrove le corse dei ceri e le giostre del Saracino. Rimane invece la grande tradizione di una serie di prodotti caratteristici che appartengono alla storia e alla cultura della regione, dalla quale del resto sono venute stirpi illustri di cuochi che hanno portato nel mondo la loro arte: sui transatlantici, negli alberghi di lusso, nelle grandi famiglie, questi «creativi» erano garanzia di precisione e di estro. Così i ristoranti abruzzesi in città come Roma e Milano si sono conquistati un posto sicuro: la loro formula quasi sempre a menù chiuso (tante portate, un poco di tutte) ha conquistato il gusto del pubblico con i sapori piccanti e genuini, la ricchezza degli «accessori» (dolci, liquori, digestivi). Naturalmente, oggi i piatti proposti fuori della regione a una clientela più cittadina e non strettamente locale hanno perso in parte la forza e l'aggressività originarie: il peperoncino, per esempio, presenza costante in tutte le ricette abruzzesi, viene usato con mano leggera. Tradizionalmente invece è un protagonista fin troppo aggressivo della cucina abruzzese che trova molti momenti di esaltazione nelle sagre gastronomiche. Esemplare è a questo riguardo la sagra dei cuochi di Sangro, che la seconda domenica di ottobre riunisce a Villa Santa Maria i cittadini dediti all'arte dei fornelli in ogni parte del mondo; ristoranti di grande prestigio espongono in appositi stand allineati sulla via principale le prelibatezze dei loro rispettivi menù.
Sagre dedicate ai prodotti tipici della regione si svolgono un po' ovunque: Vittorio, nella Valle Peligna, dedica la sua sagra all'uva e al vino. La data, mobile, è una domenica di ottobre. Pollutri, popoloso borgo della provincia di Chieti, mette in programma il 5 e il 6 dicembre un'antica sagra delle fave: nove grandi caldaie ricolme di quel pregevole legume bollono per tutta la notte nelle vie del paese. In provincia di Pescara, Raiano celebra la prima domenica di giugno il prodotto che sostiene l'economia locale, le ciliegie; Carsoli, al confine tra Abruzzo e Lazio, fa altrettanto con le castagne la prima domenica di ottobre; Capistrello, nella Marsica, ha una sagra estiva dedicata alle fragole; Macchia da Sole, luogo di latte e di pastori nella provincia di Teramo, intitola la sua al formaggio pecorino; Basciano, stessa provincia, riunisce folle di visitatori la seconda domenica di agosto in nome del suo prosciutto. Singolare appare, per restare nel Teramano, la dedica della sagra in calendario a settembre ad Arsita: si festeggia il coatto, un piatto tipico che si prepara facendo bollire per molte ore un cosciotto di pecora. Ma il repertorio degli alimenti onorati da sagre apposite è ancora lungo: comprende la ciambella (Goriano Sicoli), il gambero con la trota (Popoli), il vino (Miglianico e Succiano), i ceci (Navelli), il castrato (San Vincenzo Valle Roveto), la porchetta (Fresagrandinaria), le sagne a tacconi (Roio del Sangro), lo spiedino (Montereale e Martinsicuro), la cicerchia (Castelvecchio Carvisio), il pesce azzurro (Giulianova) e il miele (Tornareccio).
Lo zafferano è un aroma vegetale che ha in Abruzzo la sua culla italiana ma stranamente non viene affatto impiegato dalla culinaria locale. Nella provincia dell'Aquila si produce zafferano di qualità pregiata, dall'aroma spiccatissimo, che viene esportato perché non potrebbe essere usato allo stato naturale e viene raffinato e tagliato con altri di minor pregio. In Abruzzo mancano gli stabilimenti adatti a questa lavorazione, così lo zafferano originario dei monti abruzzesi va a insaporire risotti milanesi, paelle spagnole e bouillabaisses francesi. L'unico piatto locale in cui lo zafferano viene utilizzato è lo «scapece» di Vasto, una marinata di pesce tagliato a pezzi e fritto che si conserva in speciali mastelletti di legno tramandati nelle famiglie di generazione in generazione.
La ricetta più famosa della cucina d'Abruzzo è una pastasciutta, naturalmente fatta in casa, che si prepara con un arnese, anzi uno "strumento": la chitarra. Il nome deriva dal fatto che si tratta di un vero e proprio strumento a corde: un telaio rettangolare di legno di faggio forgiato da artigiani che vi tendono, alla distanza di un millimetro l'uno dall'altro, dei sottilissimi fili d'acciaio. L'impasto di uova e farina, lavorato lungamente, viene ridotto in sfoglie che si chiamano «pèttole», e che vengono una alla volta messe sulla chitarra. Passandovi sopra col matterello, i fili della chitarra tagliano la pasta a striscioline dalla tipica sezione quadrata che conservano l'antico nome di «maccheroni», la dizione autentica è infatti «maccheroni alla chitarra». Duri, elastici, di un bel colore dorato e resistentissimi alla cottura, ecco i maccheroni pronti a ricevere il condimento più tipico: un sugo di pomodoro assai denso e reso robusto da pancetta affumicata, pecorino piccante grattugiato e dall'immancabile peperoncino.
Condimento alternativo è il ragù di carne di agnello e di maiale. Altre tradizionali paste abruzzesi sono i «maccheroni al ceppo» e quelli «alla molinara», detti anche «strangolapreti», che si preparano con una tecnica precisa, molto difficile, facendo un buco in una pagnottella di pasta e ricavandone, con una serie di gesti rapidi e decisi, un unico lunghissimo filo (di circa cinquanta metri). Lo si avvolge a matassa e durante la bollitura rimane incredibilmente sodo e sottile, senza rompersi né appiccicarsi.
La tecnica di confezione della pasta, passata da una fase artigianale a quella industriale, ha fatto sorgere nella regione una serie di stabilimenti modernissimi che fanno concorrenza ai più famosi pastifici di Napoli. Un segreto dei loro ottimi prodotti è la farina di grano duro impiegata e il fatto che si è tenuto conto, nella lavorazione meccanica, della antica preparazione manuale e casalinga. Oggi queste paste sono distribuite in molte parti d'Italia e consentono quindi di riprodurre piatti che, se non sono identici a quelli locali, si avvicinano molto ad essi.
Un altro protagonista della antica tavola abruzzese è un minestrone quasi leggendario, certo cibo rituale, che viene chiamato «le virtù» (che sono sette come la quantità dei vari ingredienti) e che riunisce in un'unica preparazione generi alimentari diversi. Secondo la ricetta canonica dovrebbero essere presenti sette legumi secchi rimasti dalla provvista invernale, sette verdure nuove, offerte dalla stagione primaverile, sette legumi freschi, sette condimenti, sette qualità di carne, sette di pasta con l'aggiunta di alcuni chicchi di riso. Il tutto doveva cuocere sette ore, alla fine delle quali il minestrone era finalmente pronto! Le «virtù» a cui va riferito il nome sono quelle che si richiedono tradizionalmente alla donna di casa: piatto del Calendimaggio, questo minestrone si ricollega a riti propiziatori e pagani che riportano indietro di molti secoli; oggi si ritrova meno ridondante, ma sempre ricco e odoroso.
Tra i piatti di carne, oltre alla porchetta, vanno almeno citate le semplici, rudi ricette dei pastori. Antiche, addirittura millenarie, si basano sui prodotti della pastorizia, che ha retto, con l'agricoltura, l'economia della regione fino a non moltissimi decenni fa. La carne ovina è elemento dominante: agnello, pecora, castrato, capretto sono cucinati, in modi diversi, in tutto l'Abruzzo.
I pastori cucinavano l'agnello a «catturo», cioè in una grande caldaia di rame sostenuta da una catena a un treppiede in ferro che viene issato all'aperto. La carne fatta a pezzi è messa insieme con olio, lardo, prezzemolo, salvia, cipolla, peperoncino e fatta cuocere a fuoco lento. Si mangia col suo intingolo fragrante su larghe fette di pane. Difficile certo ormai riuscire a trovare l'agnello a «catturo», più facile gustare l'agnello a «casce e ova», gratinato con uova sbattute e formaggio o «all'arrabbiata», saltato in padella con gran quantità di peperoncino. Il capretto invece i pastori della conca aquilana lo "incaporchiano", cioè lo tengono chiuso in speciali recipienti di vimini che costringono l'animale a rimanere immobile e quindi a ingrassare rapidamente. Così, quando lo si sacrifica, la carne è di una morbidezza eccezionale.
Anche le interiora di agnello o capretto vengono impiegate per cibi robusti, molto popolari. Tagliate a striscioline, divise a mucchietti e insaporite con aromi vari (ma il peperoncino non manca mai), poi attorcigliate con le budella dell'animale, vengono cucinate con olio, pomodoro, vino bianco. Con molte varianti si mangiano in tutto l'Abruzzo, dove assumono nomi come «tuncenelle» (Chieti), «mazzarelle» (Teramo), «marro» (L'Aquila).
Normalmente non manca il maiale, il quale dà ottimi salumi, tra i quali la «ventricina», un salame molto aromatico e piccante. Piatto squisito è quello offerto dai «posticini», spiedini di agnello e maiale grigliati, spesso venduti per strada in piccoli chioschi. Tipica anche la «capra alla neratese»; si taglia a pezzi la coscia dell'animale, che, dopo essere stata a lungo immersa in acqua corrente, viene bollita con erbe aromatiche. Il «coniglio alla chietina» si cuoce al forno dopo averlo farcito con fette di prosciutto, rosmarino, pezzi di burro; il «pollo alla Franceschiello», così chiamato a ricordo del Re delle Due Sicilie, amante della caccia, è il pollo cotto, tagliato a pezzi, ai quali vengono uniti olio, aromi, olive, sottaceti.
Molto apprezzati fra i prodotti offerti dalla terra d'Abruzzo sono quelli della pastorizia, soprattutto i formaggi: scamorze, caciocavalli, pecorini, offrono forse i sapori più memorabili che si possano riportare da un viaggio in Abruzzo, dove pure le "scoperte" gastronomiche sono numerose, specie nelle zone dell'interno e delle montagne.
Un soggiorno sulla costa, che negli ultimi decenni ha avuto un lancio turistico notevole, fa incontrare il sapore del mare; pesce azzurro, ma anche molluschi e crostacei e le straordinarie minuscole triglie dette "agostinelle" che si cuociono preferibilmente gettandole, appena infarinate, in olio bollente e gustandole subito. I brodetti sono molto rinomati e anche qui, come in Romagna e nelle Marche, ogni località offre la sua variazione sul tema della zuppa di pesce adriatica. I due più famosi sono quello di Vasto e quello di Pescara: il primo è più semplice e casalingo, quello pescarese è più raffinato e piccante. Il pesce, durante la cottura, deve rimanere intero - dice la ricetta -, perciò attenzione a interventi con cucchiai, mestoli ecc.; un'altra regola è quella di tenere la teglia ("tiella") sempre coperta e portarla in tavola per scoperchiarla sotto gli occhi e le narici dei commensali che vengono investiti dal profumatissimo vapore del brodetto. A Pescara in particolare, ma in tutte le località del litorale, si trovano oltre al pesce sempre fresco occasioni di incontro con altri cibi e piatti di grande interesse come le «scrippelle in brodo o al tartufo», le «mazzarelle d'agnello» mentre, per rimanere nell'ambito del pesce, ricordiamo: il «baccalà mollicato», lessato parzialmente e successivamente passato in tegame a terminare la cottura con aggiunta di aglio, olio, prezzemolo, origano e la «coda di rospo al rosmarino», tipico piatto del Pescarese: il pesce viene tagliato a fette che vengono cotte lentamente con olio, aglio, rosmarino, con l'aggiunta di peperoncino. Altre specialità apprezzate sono le «sogliole alle olive», cucinate con piccole olive cotte con aglio, prezzemolo, succo di limone, e le «triglie ripiene» imbottite di pane grattugiato, aglio e rosmarino tritato. E basterà poi risalire verso l'interno della regione per scoprirne le bellezze architettoniche e paesaggistiche, la nobiltà fiera e dignitosa, i costumi antichi e la civiltà di ogni forma di vita, anche la più modesta perché la cucina e i vini diventino momenti importanti di questa scoperta: ogni città, ogni paese ha le sue specialità, i suoi sapori tramandati da secoli e rimasti ancora autentici a dispetto dell'appiattimento tentato dall'industria.
Il pasto abruzzese si chiude sempre con i dolci che sono spesso a base di mandorle e noci: così i torroni (al cioccolato, ai fichi secchi), i confetti, celebre specialità di Sulmona. Il «parrozzo», specialità di Pescara, vanta una «promozione» ideata e firmata nientemeno che dal Vate D'Annunzio. Si tratta di un dolce a base di farina, burro, uova, zucchero, mandorle e ricoperto di cioccolato. D'Annunzio ne era ghiotto e, essendo amico del pasticciere che lo inventò, gli trovò il nome (che deriva da pan rozzo, perché simula il pane dei contadini nella forma rotonda e nel colore) tenendolo a battesimo.

 

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